
Curious about data?
Con Donata Columbro Giornalista e autrice del libro “Ti spiego il dato”
Impossibile negarlo: i dati sono sempre sembrati una materia difficile, di nicchia, un po’ misteriosa. Ma è altrettanto innegabile che i dati fanno parte della nostra vita quotidiana e allenando la nostra curiosità possiamo imparare a leggerli, usarli, capirli. Competenze queste che nell’ambito della “data literacy” vengono definite “alfabetizzazione ai dati”. E non è necessario essere un esperto di dati, chiunque può approcciarli e scoprirne il valore.
Insieme a Donata Columbro, Giornalista e autrice del libro “Ti spiego il dato”, abbiamo realizzato una serie di mini-video per approfondire i molteplici aspetti legati al mondo dei dati. Puoi guardare direttamente il video oppure leggere la storia di ciascuna puntata. Ecco di cosa si parla:
- L'importanza della data literacy
- La storia dei dati, quando abbiamo cominciato a usarli per prendere decisioni?
- Bias nella lettura dei dati, cosa sono, come tenerli a bada
- Rumore e incertezza nei dati, cosa sono?
- Cosa vuol dire "Data for Good"?
Per partire da zero, anzi per partire “domani”,
dico di iniziare con la curiosità: i numeri, le percentuali, le codifiche visive che ci svelano il mondo con i dati sono attorno a noi.
DONATA COLUMBRO
Giornalista e Co-Fondatrice Dataninja
L'importanza della data literacy
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Ciao, questo è il primo video di una serie realizzata insieme a SAS Italy sul tema…dei dati, ovviamente!
Oggi partiamo dalle basi, e cioè dal conoscere il significato dell’espressione “data literacy”. Si usa per definire la capacità di leggere, capire e usare i dati. Ma a che livello? Dipende. Per una persona che lavora come data scientist queste capacità e competenze sono molto avanzate, vuol dire conoscere linguaggi di programmazione diversi, così come avere una conoscenza della statistica approfondita. Ma per una persona che lavora in altri contesti, per una cittadina o un cittadino, il livello di literacy nei dati è semplicemente quello che può permettergli di leggere e capire i dati della vita quotidiana.
Lo dico sempre: siamo circondati dai dati e dalle visualizzazioni, da quando guardiamo il telefono appena svegli e vediamo lo stato della batteria, a quando apriamo il frigo e notiamo il livello del latte rimasto nella bottiglia: la capacità di valutare se è piena o vuota è già una competenza di lettura del dato, del grafico, che abbiamo dentro di noi. Osservando il livello del latte, infatti, leggiamo una codifica visiva di un dato che non dobbiamo nemmeno misurare e possiamo prendere la decisione di comprare una nuova bottiglia, e avere la colazione assicurata il giorno dopo!
Ma non solo: troviamo dati nelle app del meteo che ci mostrano il livello di temperatura atmosferica e la probabilità di pioggia, e applichiamo statistica di base quando decidiamo se portarci dietro l’ombrello per andare in ufficio.
I dati sono anche nelle notizie che leggiamo tutti i giorni, ormai ce ne siamo accorti: saper interpretare correttamente una percentuale, confrontare due numeri e due grandezze, è utile per essere cittadine e cittadini consapevoli, ma anche per compiere delle scelte.
Immaginate per esempio di dover prenotare le vacanze e trovare recensioni di due campeggi che a parità di prezzo hanno le stesse “stelline” votate dal pubblico: solo che uno ha più di 5mila recensioni, l’altro ne ha meno di mille. Anche qui, abbiamo usato una piccola competenza di lettura del dato per fidarci di più del campeggio con una quantità di recensioni maggiore.
Sas definisce la data literacy come la competenza che permette a una persona “di interagire con i dati in modo che diano senso al mondo”.
La trovo particolarmente efficace nel momento in cui i dati hanno un impatto diretto sulla nostra vita, dalla pandemia ai cambiamenti climatici: in quest’ultimo caso, per esempio, è fondamentale riconoscere le variazioni rispetto alla media. Lo percepiamo sulla pelle (fa caldo!) ma quanto di più rispetto a 10, 20, 100 anni fa? Questo è un dato che è importante saper leggere e commentare per chiedere per esempio l’intervento della politica sul riscaldamento globale.
Tra le capacità di base per usare i dati possiamo anche mettere quella di “trovare” quelli che ci servono tramite la ricerca online, per esempio, per confrontare fonti e pareri: saper riconoscere quelli affidabili e credibili è sicuramente una competenza di base fondamentale per tutti i cittadini e le cittadine, e si può imparare fin da piccoli.
Come fare per migliorare il nostro livello di data literacy?
Dentro il sito di SAS trovate un bel corso gratuito che si chiama Data Literacy Essentials: è in inglese ma assolutamente accessibile.
Per partire da zero, anzi per partire “domani”, dico di iniziare con la curiosità: i numeri, le percentuali, le codifiche visive che ci svelano il mondo con i dati sono attorno a noi, nei nostri smartphone, nelle app che calcolano i passi che facciamo, sugli scaffali dei supermercati quando confrontiamo i prezzi, al telegiornale…possiamo imparare a riconoscerli e soffermarci a leggerli quando ce li troviamo davanti. Ci provate e poi mi raccontate?
Alla prossima puntata!

La storia dei dati, quando abbiamo cominciato a usarli per prendere decisioni?
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Eccoci al secondo video della serie realizzata con SAS Italy per scoprire curiosità legate al mondo dei dati.
Nel primo video di questa serie raccontavo che abbiamo dentro di noi capacità innate di leggere e capire una visualizzazione dati, e che prendiamo decisioni basate sui dati tutti i giorni, in molti ambiti della nostra quotidianità.
Ma quando abbiamo cominciato a usare la parola “dati” per indicare osservazioni quantitative della realtà? Ci sembra un concetto nuovo, contemporaneo, legato all’epoca dei computer e dell’informatica. Daniel Rosenberg, storico della data visualization, nel suo saggio “Data before the fact”, conferma proprio che si tratta di un concetto legato alla modernità e fa un’indagine per scoprire l’origine della parola “dato. Racconta che nella lingua inglese viene usato per la prima volta nel 600, anzi, nel 1646 per essere precisi, in un trattato teologico dove si parla di “mucchio di dati”, quindi al plurale “data” e non “datum” al singolare, dal latino, termine che praticamente in inglese non è mai stato adottato.
Nella sua ricerca il nostro Rosenberg si imbatte in Joseph Priestley, che per chi conosce la storia della data visualization ha sicuramente incrociato nel suo cammino, perché è stato un filosofo ed educatore del 700 che ha inventato la prima “timeline della storia”. Rosenberg è stupito del fatto che Priestley parli di “fatti della storia” riferendosi a essi come dati cioè usando la parola data e non fact.
Ok, vi siete persi? Quello che è interessante di questa investigazione degna di uno Sherlock Holmes della data analysis è che oggi quando parliamo di dati pensiamo subito ai numeri, ai dataset, a qualcosa che qualcuno si è messo a contare.
Lo facciamo in modo automatico, perché dal ‘700 in poi sia la visualizzazione dati sia il concetto di dati è stato associato alla moderna statistica e alla scienza. Ma prima di allora appunto il dato è anche qualcosa che succede e che non va messo in discussione.
Nel ‘600 la parola “dati” era usata come termine tecnico sia in ambito matematico per indicare le quantità date in un “problema” matematico, appunto, ma anche come “date verità” in ambito teologico.
Sia per la filosofia che per la matematica che la teologia il termine “dati” identificava fatti e principi che lo erano per definizione, al di là di qualsiasi dibattito. Per Priestley, il nostro disegnatore di timeline, i fatti storici non erano discutibili, erano dati.
Infatti, il saggio che nel 1646 usa la parola dati per la prima volta, non si riferisce a numeri, ma a enunciazioni teologiche che i preti avrebbero dovuto considerare come vere e aggiungere alle proprie preghiere. L’avreste mai immaginato che la parola dati appare per la prima volta in un… catechismo?
Cambia tutto nel 700: alla fine del 18simo secolo, infatti, il termine dati viene usato per riferirsi a fatti ed evidenze determinate da esperimenti scientifici, esperienze vissute o da una raccolta. Diventa praticamente assurdo pensare, come alla fine del secolo precedente, ai dati come qualcosa che pre-esiste al lavoro di un essere umano (e anzi lo trascende, come i “fatti di dio!). Siamo nel pieno dell’illuminismo, delle scoperte scientifiche, e anche della moderna statistica e demografia.
I dati sono il risultato di un’indagine, non la sua premessa. Ed è la loro bellezza: un mondo di dati, è tutto da costruire, da osservare, oppure da analizzare con curiosità e senso critico. Ma questo lo vediamo nella prossima puntata!

Bias nella lettura dei dati, cosa sono, come tenerli a bada
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Rieccoci con la nostra serie realizzata insieme a Sas Italy per scoprire curiosità legate al mondo dei dati. Nei video precedenti ci siamo detti che i riferimenti ai dati sono ovunque, dalle mappe che usiamo per muoverci in città agli scaffali del supermercato dove ci fermiamo per confrontare i prezzi, e ovviamente nei giornali, in tv, o sui social.
Ma come imparare a leggerli e non lasciarci fuorviare dall’aura di rigore e precisione di cui sembrano circondati? Riconoscendo il concetto di BIAS, una parola che deriva dal francese provenzale biais, che significa “obliquo, inclinato” e che a sua volta deriva dal latino e, prima ancora, dal greco epikársios, obliquo.
Possiamo definire i bias dei processi mentali che portano a interpretazioni della realtà influenzate dal contesto in cui operiamo, dalla nostra storia, dalla nostra esperienza. Ne esistono di diversi tipi. Gli stereotipi, ad esempio, sono bias cognitivi.
Anche nella costruzione di un dataset, ovvero un insieme di dati per analizzare una situazione o un fenomeno, possono entrare in gioco i bias, perché i dati sono costrutti sociali, sono il prodotto di relazioni sociali influenzate da secoli di storia.
E non solo chi ha costruito quell’insieme di dati ha una sua visione distorta del mondo, ce l’ha chi li ha riportati nell’articolo di giornale e ce l’hai anche tu che leggi.
Ti faccio un esempio pratico.
Il cherry picking è uno dei modi in cui esprimiamo bias cognitivi quando vogliamo raccontare la realtà attraverso i dati. Mostriamo solo quelli. Letteralmente significa “scegliere le ciliegie migliori”. Chi lavora con i dati può decidere di escludere quelli che potrebbero contraddire la propria tesi, o di includere solo quelli che la rafforzano.
Quando leggiamo i dati invece siamo condizionati dalle nostre reazioni emotive, dal nostro vissuto, da come ci hanno sempre presentato alcune situazioni. “Le percezioni sbagliate sono vaste, profonde e durevoli”, scrive Bobby Duffy nel suo libro “I rischi della percezione”, e si differenziano dall’ignoranza perché portano con sé un certo grado di certezza. Anche quando ci vengono presentati dati che potrebbero smentire le nostre idee reagiamo con quella che lo psicologo sociale americano Daniel Herda definisce emotional innumeracy, l’ignoranza numerica legata alle emozioni.
Succede davanti a un grafico, a una percentuale pubblicata su un giornale o citata in televisione, perché quando ce li troviamo di fronte reagiamo in due modi: evitando di approfondire e quindi di coinvolgere il sistema dei pensieri lenti, oppure con l’emotività del pensiero veloce, cercando di selezionare velocemente le informazioni in grado di confermare la nostra esperienza e la nostra percezione.
Hans Rosling, medico e statista svedese, di cui vi parlo molto spesso, chiamava queste credenze “istinti”, e ne aveva individuati dieci. Per raggiungere la serenità mentale suggeriva di curarli con il metodo della “factfulness”, ovvero usando i dati e interpretando i numeri in modo corretto.
Secondo gli autori del libro “Un dato di fatto”, mettiamo in atto bias comportamentali e cognitivi quando:
⦁ Raccogliamo solo quelli che confermano le nostre ipotesi di partenza.
⦁ Tendiamo a vedere i problemi come unici, ignorando le esperienze passate.
⦁ Evitiamo i dati che potrebbero portarci disagio
⦁ Cerchiamo i dati che confermano opinioni o ipotesi.
⦁ Riteniamo un evento probabile perché ce lo ricordiamo oppure perché riusciamo a immaginarlo (qualcuno immaginava la pandemia?)
⦁ Preferiamo informazioni che si basano sul vissuto personale nostro, o di chi ci è vicino concrete, perché le ho vissute
⦁ Ci basiamo su informazioni vecchie, non aggiornate
⦁ Abbiamo la tendenza a credere che le azioni delle persone riflettano ciò che sono, dando molta importanza al comportamento del singolo e sottostimando la situazione o il contesto.
Nel libro c’è uno schema dove se ne elencano molti altri.
A cosa serve questa piccola lista quindi? A ricordarci che avere dati e grafici davanti agli occhi non ci rende immuni da un'interpretazione totalmente razionale della realtà. Serve allenamento per uscire dalla bolla, e anche curiosità.

Rumore e incertezza nei dati, cosa sono?
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Ciao, eccoci con un nuovo video della nostra rubrica sulle curiosità attorno al mondo dei dati!
Oggi siamo più tecnici rispetto ai video precedenti, che ti invito ad andare a cercare su questo profilo e su quello di SAS Italy, perché parliamo dei concetti di incertezza e di rumore.
Concetti più tecnici ma assolutamente comprensibili: infatti anche se non analizzi i dati per lavoro e non li usi per prendere decisioni, ma li trovi sui giornali, te li mandano via social, e li ascolti al telegiornale, è fondamentale capire di cosa stiamo parlando.
Partiamo da incertezza.
Secondo il dizionario Treccani, si tratta dell'impossibilità di conoscere in anticipo il verificarsi di eventi futuri. La conoscenza insufficiente, o non del tutto fondata, di un fatto. Ma come, quando ci sono di mezzo i dati, non dovremmo parlare di precisione, di rigore, di certezza? Se raccogliamo abbastanza dati possiamo conoscere ogni fenomeno, no?
In realtà, anche quando la nostra quotidianità è fatta di numeri, troviamo dell’incertezza. Pensiamo alla percentuale che troviamo nelle App del meteo che ci indica le possibilità di pioggia o di sole nelle app del meteo che consultiamo ogni giorno, stiamo parlando di un valore non certo.
L’incertezza è anche negli strumenti che utilizziamo per misurare, dal termometro per misurare la febbre o la temperatura atmosferica, al nostro occhio che guarda le dimensioni e la misurazione. Ma anche nelle metodologie con cui raccogliamo i dati e nei modelli matematici e statistici con cui li analizziamo.
Ecco perché quando vedo un dato devo chiedermi sempre come è stato calcolato, cosa contiene, cosa esclude, qual è stata la metodologia di quella raccolta e analisi.
Se la domanda vi sembra scontata, prendiamo un esercizio descritto dal produttore del programma radiofonico di data literacy della BBC “More or Less”, Michael Blastland. Per dimostrare che in ogni misurazione c’è una dose di incertezza chiede di visualizzare un prato su cui si trovano due pecore. Quante pecore ci sono sul prato? Due, ci viene da dire. Immaginiamo però che una delle pecore sia in realtà un agnello, e che l’altra sia incinta, vicina al parto: anzi, il travaglio è già iniziato, potrebbe partorire da un momento all’altro. Quante pecore contiamo ora?
Quando affrontiamo una decisione basata sui dati siamo spesso costretti a definire dei modelli interpretativi che per definizione non sono altro che una rappresentazione semplificata della realtà.
I dati sui quali ci basiamo per costruire queste modellizzazioni sono spesso parziali e incompleti o in evoluzione come la vicenda della pecora che sta per partorire.
E cos’è, invece, il rumore? Christian Rudder, fondatore della app per incontri OK Cupid, dice “Chi lavora con i dati deve immaginarsi metodi, strutture, persino scorciatoie per rilevare i segnali in mezzo al rumore”. In realtà, lo facciamo anche noi quando dobbiamo prendere decisioni come a quale università iscriverci, a quale scuola mandare i nostri figli, a quale azienda mandare un cv. Quando cerchiamo informazioni, e quindi raccogliamo dati, in tutti questi contesti siamo esposti a una certa dose di “rumore” che dipende dalla variabilità delle opinioni delle persone che ascoltiamo quando chiediamo consiglio. In Italiano possiamo anche usare il termine “disturbo”, se ci aiuta a capire meglio.
Sul “rumore” e sugli errori che possono portare all’errata interpretazione dei dati Daniel Kahneman, il premio Nobel per l’economia e l’autore di “Pensieri lenti e pensieri veloci”, ci ha scritto un intero libro, pubblicato in Italia da Utet. Secondo lui il rumore e i bias sono due dei più frequenti componenti degli errori umani nelle decisioni e nei giudizi. Analizza situazioni come per esempio la diagnosi che si fa a un paziente, quanti medici possono dire cose diverse in questo contesto? Sono situazioni ad alta frequenza di rumore. Ma anche le decisioni che vengono prese per concedere l’asilo politico, per assumere una persona, e molto altro.
Per comprendere un errore di giudizio occorre capirne sia cos’è il bias sia cos’è il rumore, ma se del primo se ne parla molto spesso, abbiamo fatto un video anche noi, è poco riconosciuto il fatto che nelle nostre decisioni “il tasso di rumore è scandalosamente alto”, scrive il premio nobel.
Ed è sempre il rumore che spiega, per esempio, perché un manager può prendere decisioni diverse a seconda del momento della giornata: perché in ogni momento siamo diversi, non solo dagli altri, dice Kahneman, ma anche da noi stessi.
Non dobbiamo cercare di eliminarlo quindi del tutto, perché altrimenti rischiamo di trasformarci in dei robot senza opinioni. Bisognerebbe invece analizzare bene il sistema decisionale e poi introdurre meccanismi che possono migliorare significativamente questi processi.
Insomma, occhi aperti: per l’incertezza, per il bias (c’è un video dedicato!) e, come abbiamo appena, imparato, anche per il rumore!

Cosa vuol dire "Data for Good"?
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Ciao, eccoci con l’ultimo video delle pillole di curiosità sui dati con Sas Italy.
Oggi parliamo di Data for Good: un concetto di cui forse avete sentito parlare e che mi sta molto a cuore. Sono i dati usati nei progetti per fare del bene, iniziative che hanno un impatto e una ricaduta positiva per i territori e le persone coinvolte.
Qui siamo in ambito corporate, quindi parliamo di aziende, e nello specifico SAS che ha tantissimi progetti attivi rispetto ai Data for Good per aiutare il settore pubblico ma anche le organizzazioni no-profit a osservare situazioni dall’alto, negli ambiti della sanità, agricoltura, emergenza sanitaria e prendere decisioni che possono anche salvare vite.
Alcuni esempi? I dati possono essere uno strumento indispensabile per identificare le aree a rischio di deforestazione. SAS insieme all’Institute for Applied Systems Analysis ha lanciato un progetto che unisce intelligenza artificiale, dati satellitari e volontariato. In due anni, i volontari digitali provenienti da 130 paesi hanno classificato 90mila immagini satellitari che vanno a coprire più di 1 milione di chilometri quadrati dell'Amazzonia. Grazie a questo lavoro “manuale” il software ora può monitorare nuove aree in modo autonomo e rilevare la deforestazione con una precisione superiore al 90%.
Anche durante le situazioni di emergenza i Data for Good possono aiutare, come ad esempio quella del terremoto in Nepal del 2015, dove almeno 45.000 famiglie sono state costrette a trasferirsi in oltre 200 campi di accoglienza per sfollati. L'Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) doveva gestire continuamente migliaia di richieste di riparo da parte delle popolazioni che si spostavano all’interno del territorio e ha utilizzato i dati per verificare dove si trovavano i rifugi ad alto rischio, in base a fattori come il sovraffollamento, la presenza di acqua non potabile e problemi di smaltimento dei rifiuti solidi.
Un altro esempio affascinante arriva dal mondo dell’apicoltura: SAS sta collaborando con l'Appalachian State University sul conteggio mondiale delle api per visualizzare in tempo reale i dati sulla loro popolazione mondiale, che purtroppo sta calando, e va monitorata costantemente. Dobbiamo quindi fare in modo che questi insetti fondamentali per la nostra sopravvivenza non scompaiano. In particolare c’è un progetto che si può esplorare sul sito di SAS creato per seguire le traiettorie delle api da miele nella loro “danza” alla ricerca del polline: si chiama Beefutures e serve per automatizzare la raccolta dati che di solito viene fatta a mano. In pratica è stato creato un alveare di osservazione pieno di sensori, microfoni e telecamere che monitorano l'interno e l'esterno. Con una tecnologia che si chiama computer vision, una branca dell’intelligenza artificiale che addestra i computer a interpretare e comprendere il mondo visivo, vengono catturate le immagini e i dati trasmessi in streaming. Un algoritmo analizza il viaggio in tempo reale di tutte le api nell'alveare, e così il team di scienziati e apicoltori può decodificare i movimenti delle api e individuare il miglior posizionamento possibile per gli alveari futuri.
Un altro esempio di uso dei dati nella protezione dell’ambiente arriva dalla
Royal Society for the Protection of Birds che utilizza le tecnologie SAS per aiutare a salvaguardare la fauna selvatica. Attraverso l'analisi, l’organizzazione può comprendere meglio i dati che raccoglie nel tentativo di testare e sviluppare soluzioni di conservazione che proteggano gli uccelli in via di estinzione.
I dati sono usati anche dal Malala Fund, organizzazione fondata dalla premio nobel Malala Yousafzai, per analizzare le conseguenze dei cambiamenti climatici sulle bambine di tutto il mondo: sì, perché l’impatto del climate change osservato con una prospettiva di genere aiuta a considerare quello che succede in caso di alluvioni e disastri naturali nelle comunità in cui le bambine sono le ultime a tornare a scuola, sono quelle che si occupano della cura familiare e di aiutare i genitori a gestire l’emergenza. In questo caso SAS e il Malala Fund hanno sviluppato un indice, combinando i set di dati sul clima e sull'istruzione, in grado di analizzare l’impatto di genere del rischio climatico nelle diverse aree del mondo. L'indice identifica i paesi in cui le ragazze sono maggiormente a rischio di subire interruzioni del loro ciclo di istruzione e prevede i cambiamenti nei tassi di completamento dell'istruzione primaria e secondaria a causa del cambiamento climatico.
Se avete gli occhi sbarrati per lo stupore di cosa possono fare i dati per migliorare il mondo capisco molto bene. Ci sono molte altre storie come queste nella pagina Data for Good di SAS che vi invito a scoprirle.
Grazie per aver seguito questo viaggio alla scoperta delle curiosità mondo dei dati!

Vuoi approfondire ulteriormente il tema della data literacy?
Leggi anche questo articolo di Donata Columbro:
Data literacy, una competenza trasversale (dalle scuole alle aziende)
20 settembre 2022
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