Lo sappiamo bene: la customer centricity è questione di aderenza. Aderenza al contesto, che va compreso molto bene nelle sue diverse sfaccettature. Aderenza soprattutto con il cliente, come dice la parola stessa, per disegnare strategie di customer interaction e quindi di business capaci di metterlo in primo piano.
La domanda, allora, diventa: che cosa vuole il cliente davvero?
Che lavoro fanno i tuoi clienti?
Uno dei classici della letteratura manageriale, è l’articolo Know Your Customers’ “Jobs to Be Done” scritto nel settembre 2016 da Clayton Christensen, Taddy Hall, Karen Dillon e David Duncan su Harvard Business Review . La posizione dei ricercatori sull’innovazione era netta: per innovare, non dobbiamo guardarci intorno attraverso benchmark e analisi comparative. Piuttosto, dobbiamo entrare nella mente e nella vita delle persone. Proprio su questo si fondano i jobs to be done, uno dei paradigmi ancora più interessanti quando si parla di approccio customer-centric. Per raggiungere i propri obiettivi, ovvero per svolgere le proprie mansioni quotidiane, le persone “assumono” (hire) o “licenziano” (fire) di volta in volta i prodotti - e i rispettivi brand - giudicati o meno importanti. Se il mio job è quello di appendere un quadro, assumerò un prodotto che reputo capace di svolgere quel task al meglio. Quando non mi ritengo più soddisfatto di questo o trovo un prodotto che penso faccia maggiormente al caso, lo licenzio più o meno frettolosamente.
Quella dei jobs to be done è una metafora di business importante per comprendere la necessità di un cambio di prospettiva.
Il perché, di chi è?
Cambio prospettiva, per poi ri-convergere: una parola oggi molto diffusa è quella del Purpose. Ovvero il “why”, quel motore fondamentale che scalda le aziende e i dipendenti che ne fanno parte. Nel proprio cerchio magico e nel TED in cui lo ha introdotto, Simon Sinek lo ha spiegato bene.
Gene Cornfield, membro del global tech team di Accenture Interactive, sempre su Harvard Business Review parla di tre tipologie di purpose:
- Big-P Purpose (Corporate Purpose): descrive il ruolo dell'azienda nel mondo. Si tratta proprio del Purpose fondamentale di Simon Sinek e del suo Golden Circle. Rappresenta il “perché” (why) esistenziale, ben intrecciato con la missione ma soprattutto la visione organizzativa.
- Medium-P Purpose (Brand Purpose): descrive il ruolo dell’azienda nella vita delle persone. Qui stanno branding, comunicazione di marca e brand marketing: per le aziende con un solo brand, Big-P e Medium-P possono anche convergere.
- Scopo Small-P (Customer Purpose): nonostante il suo nome, ha di gran lunga il maggiore impatto sulle prestazioni aziendali e sulla leadership di mercato. Gli scopi del cliente sono tutti gli intenti, i bisogni, le domande o i risultati desiderati che potrebbero portare il cliente a rivolgersi all’azienda. Pensiamo a tutto ciò che inizia con qualcosa come "Ho bisogno..." "Voglio..." "Come posso..." o "Puoi...".
Queste molte esigenze comprendono il customer purpose portfolio. È quasi più importante che i team aziendali abbiano una profonda conoscenza di questi, piuttosto che del portafoglio di prodotti. La ragione è semplice: ogni volta che i clienti raggiungono il loro scopo, generano valore per l'azienda che ha consentito loro di farlo. Tale valore può essere sotto forma di revenues, share of spend, loyalty, advocacy, lifetime value, ecc...
Verso il data-driven purpose
Ho dunque tracciato un sottile filo rosso tra customer-centricity e purpose, due parole a prima vista lontane ma in realtà mai così vicine. Conoscere il Customer Purpose permette a qualsiasi azienda di confezionare una customer experience rilevante e meravigliosa.
La sfida, ora, diventa: come fare?
Qui entra in azione il dato. Senza di questo, riuscire a capire a fondo e genuinamente il cliente, il proprio contesto, i jobs che deve fare quotidianamente e il proprio Purpose - quello da cui parte tutto - è impossibile. E in un mondo sempre più datificato, non abbiamo più scuse. Al contrario: non c’è nulla di più umano ed empatico del dato.