Innovation sparks
Nuovi orizzonti del marketing
Gianluca Diegoli, Strategy Advisor & Professore IULM
Tempo di lettura: 3 min
Non capita spesso di avere la possibilità di interagire informalmente con CMO di grandi aziende sui temi caldi della trasformazione digitale del marketing. È stato un confronto molto interessante che mi ha permesso di esplorare sul campo, ascoltando la voce di chi ci lavora giorno dopo giorno, gli insight sulle questioni che rendono oggi il marketing, come dico spesso, al centro della tempesta perfetta.
"I temi dell’automazione sono importanti, ma devono seguire un percorso che parte dall'unicità di ogni brand, dalla centralità del cliente e delle informazioni raccolte, facendo prima le “cose essenziali”, come unificare i journey e i linguaggi tra online e offline e far crescere la cultura del digitale e del cliente in azienda."
GIANLUCA DIEGOLI
Strategy Advisor & Professore - IULM
Gli smottamenti della legislazione sulla privacy, che vanno ad alimentare le giuste aspettative dei consumatori al riguardo, l’accresciuta sensibilità e richiesta di un’esperienza fluida e omnicanale dei clienti, alimentate da esperienze ottimali dei grandi operatori online, sono i due grandi poli magnetici tra cui il fattore dato si muove oggi. Dato che risulta sempre più essere il cemento che sorregge l’edificio di tutta l’esperienza di brand, e non più solo limitata al canale di vendita digitale, ma che deve a sua volta essere “contrattato” con il cliente in quella che è sempre più spesso stata definita una (Data) Value Exchange Economy tra brand e persone.
Quando il customer journey, indipendentemente dalla sua conclusione, è prevalentemente digitale, tutto il brand deve essere coinvolto nella relazione abilitata dal dato.
Nel nostro panel è risultato chiaramente che il dato chiave su cui fanno affidamento i brand è quello di prima parte, soprattutto di origine transazionale, sia pure in qualche caso arricchito con data enrichment esterni. L’uso del dato di prima parte risulta inoltre avere un ruolo importante anche come attivatore per ulteriori audience da targetizzare, attraverso le cosiddette lookalike o similar audience.
Il dato diventa quindi un facilitatore di migliori esperienze e di journey “semplicemente” più fluidi (per esempio, nell’e-commerce del fashion: filtro il catalogo per la taglia del cliente) senza puntare per forza a una iper-personalizzazione, che potrebbe essere poco raggiungibile o comunque non efficiente. Si tratta dunque di lavorare al “fine tuning” di un “proprio” livello e modalità di personalizzazione, adattata al proprio settore e al proprio modello di business. In un caso, quindi, utilizzando e facilitando le stesse interazioni personali (come nel settore del lusso o delle assicurazioni “tradizionali”), in altri casi, nell’orchestrare messaggi coerenti con il ciclo di vita del cliente e le sue abitudini, cercando di “non essere assenti tra un rinnovo e l’altro” (nel caso del settore assicurativo), ma nemmeno di assillare un cliente la cui casella di posta non è certo priva di sollecitazioni.
Paradossalmente, “il fattore umano” è risultato essere intrecciato a vari momenti decisivi nel rapporto tra marketing e dato: il supporto delle persone “sul campo” per gli agenti di ricezione di informazioni aggiuntive, nella attivazione del consenso, nella gestione del feedback digitali post visita in negozio/agenzia. Al tempo stesso, l’esperienza online non può più essere indifferenziata. Non a caso sono tutte modalità di integrazione tra online e offline, nel dato come nell’esperienza dell’utente.
In questo scenario i temi dell’automazione sono importanti, ma devono seguire un percorso che parte appunto dalla unicità di ogni brand, dalla centralità del cliente e delle informazioni raccolte, facendo prima le “cose essenziali”, come unificare i journey e i linguaggi tra online e offline, far crescere la cultura del digitale e del cliente in azienda. Certo, i risparmi in termini di tempo e lavoro di staff della marketing automation sono importanti, ma è necessario trovare un equilibrio in cui il cliente non si senta “perseguitato” ma valorizzato nella sua unicità. Occorre mantenere un “human touch”, concordano tutti i partecipanti.
Il panel è fiducioso che la personalizzazione funziona, lo confermano i test, ma la considera anche un equilibrio delicato e non scontato. Anche dal punto di vista dei costi associati al “consenso” necessario, che è tutto tranne che scontato in questa fase, da parte del consumatore. Nella Value Exchange Economy, ogni brand deve prendere coscienza del senso del rapporto “attivato” con i propri utenti e consumatori: deve offrire vero valore, rassicurare sull’uso del dato e presentare l’opportunità di essere contattato (e di creare una relazione) nel migliore dei modi, usando spesso anche le relazioni “in presenza”. E sicuramente integrare i dati che si hanno già, senza richiederli nuovamente ai clienti.
Al tempo stesso è necessario far crescere la consapevolezza di questo valore anche all’interno dell’azienda, e per farlo è necessario innanzitutto misurare: attraverso test misurare i costi del consenso, e attraverso analytics il suo valore in termine di lifetime value e relazione di lungo periodo. Perché senza relazione diretta non è possibile scaricare a terra, con la massima potenza possibile, ogni potenzialità di miglioramento del journey, di personalizzazione, di orchestrazione dei vari messaggi.
23 maggio 2022
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