Innovation Sparks
Tra incertezza e bias, la data literacy è fondamentale per diffondere la cultura dei dati in azienda
Di Donata Columbro, Giornalista e Co-Fondatrice - Dataninja
Negli ultimi due anni considerare importante saper leggere e interpretare i dati è diventato quasi scontato: la nostra vita quotidiana, dalla possibilità di viaggiare ma anche semplicemente di lavorare in ufficio invece che da casa, l’apertura delle scuole dei nostri figli, prendere un caffè al bar coi colleghi, e molto altro, viene guidata da numeri e dati su cui leader di tutto il mondo prendono decisioni cruciali. Anche le persone più scettiche hanno iniziato a farsi domande guardando i grafici pubblicati sui giornali e le percentuali citate in tv, perché finalmente sentiamo sulla nostra pelle che i dati ci riguardano.
Siamo nell'era dell'attualità
data-informed: tutti noi
dobbiamo saper leggere
ed interpretare i dati
Essere entrati nell’era dell’attualità data-informed potrebbe aiutare anche il processo di apprendimento della data literacy all’interno delle aziende, dove per molto tempo la conoscenza dell’argomento “dati” è stato visto come appannaggio di un gruppo ristretto di persone, di una nicchia di professionisti competenti con job title che includono la parola “data” al proprio interno: il rapporto lo facciamo fare al data analyst, la procedura di struttura dei dati la attiva il team di data scientist. E poi ecco, la rappresentazione grafica, la data visualization, sempre la più trascurata, assemblata, dai software di default. Oggi avere una diffusione orizzontale di competenze legate ai dati invece può aiutare moltissimo i manager a prendere decisioni condivise e consapevoli.
Data literacy, saper leggere e interpretare i numeri
La definizione più completa di data literacy indica la capacità di leggere, utilizzare, analizzare e comunicare con i dati nell’era digitale.
Secondo un report realizzato da Dataninja, nell’ambito del progetto europeo Datalit, nonostante l’interesse condiviso e generalizzato per le competenze di data literacy da parte dei cittadini, emerge che “le aziende e le organizzazioni non hanno strumenti e metodologie per promuovere la formazione sui dati tra i propri dipendenti o studenti, né per valutare e validare le competenze da loro acquisite”.
64%
Intervistati che ritengono importante avere conoscenze di base sui dati per crescita personale
60%
Intervistati che ritengono importante avere conoscenze di base sui dati per l'avanzamento di carriera
49%
Intervistati che ritengono importante avere conoscenze di base sui dati per trovare lavoro
C’è interesse quindi e c’è un gap di competenze da colmare, perché i dati raccolti nell’ambito del progetto Pilota PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), finalizzato alla valutazione delle competenze della popolazione adulta, ideato dall’OCSE, nelle competenze matematiche (numeracy) il campione italiano totalizza 247 punti, mentre a livello globale la media è di 269. Lo stesso report presenta però un dato positivo sul nostro paese: abbiamo una delle medie più alte tra tutti i Paesi partecipanti nella frequenza di utilizzo delle competenze di ICT e problem solving sul lavoro.
Dobbiamo quindi cominciare a darci da fare. Partendo dalle domande giuste.
Per esempio, quali bias entrano in gioco nell’interpretazione del dato?
I bias sono processi mentali che portano a interpretazioni della realtà influenzate dal contesto in cui operiamo, dalla nostra storia, dalla nostra esperienza. Ne esistono di diversi tipi.
Lo statistico e medico svedese Hans Rosling, autore di Factfulness (Rizzoli 2018), ne aveva individuati 10, chiamandoli "istinti", e riteneva che il peggiore fosse l’istinto della negatività, che ci porta a credere alla catastrofe imminente, a cedere alla paura, a ridurre la complessità dando la colpa a un solo responsabile.
In realtà secondo la neuroscienziata Tari Sharot l’80% delle persone soffre del cosiddetto “bias dell’ottimismo”, perché tende a sopravvalutare le probabilità di fare esperienze positive e a sottovalutare le probabilità di fare esperienze negative. Sottostimiamo le probabilità di ammalarci e sovrastimiamo la nostra longevità, le prospettive di carriera.
Questo porta a un eccesso di fiducia che ci impedisce di procedere nell’indagine per conoscere meglio i numeri a cui ci troviamo di fronte, così come la negatività ci paralizza nelle nostre convinzioni di avere davanti agli occhi la peggior situazione possibile.
Bias dell'ottimismo
Bias dell'ottimismo
Tendenza delle persone a sopravvalutare le probabilità di fare esperienze positive e a sottovalutare le probabilità di fare esperienze negative.
Nella lettura del dato i bias bloccano qualsiasi prospettiva innovativa, perché semplicemente confermano quanto già siamo portati a credere. Rendercene conto può invece farci avanzare e alimentare la nostra curiosità rispetto a quello che ci rendiamo conto di non sapere.
I dati sono come le parole, posso usarli per mentire, per convincere, per raccontare storie veritiere, ma c'è un problema in più. Il rigore dei dati, almeno così come è sempre stato rappresentato, rischia di annullare il nostro pensiero critico e ci fa accettare quello che i nostri bias confermano.
Allora continuiamo con le domande. Possiamo osservare i dati in modo neutro, senza emozioni?
È possibile osservare dati senza che la nostra personale interpretazione, i nostri sentimenti, interferiscano con il loro valore? Sì e no. Sì, se sappiamo mettere da parte bias ed emozioni. No, se pensiamo che questo voglia dire avere neutralità e obiettività. I ‘dati grezzi’ sono un ossimoro”, sostiene Lisa Gitelman, docente di cultura e media alla New York University. Perché la conoscenza non è mai oggettiva. Non esiste una prospettiva dall’alto da cui si può vedere tutto.
Tim Harford, economista, analizza dieci modi per aiutarci a leggere e capire i dati nel modo più corretto, e suggerisce di non mettere da parte le proprie emozioni, ma riconoscerle. Pensiamo a uno dei dibattiti più polarizzati di questo secolo, quello sui cambiamenti climatici. “Se le emozioni non avessero alcun peso”, scrive in “Dare i numeri” (Francesco Brioschi Editore 2021) ,”un livello di istruzione più elevato e maggiori informazioni a disposizione dovrebbero favorire il raggiungimento di una verità condivisa, o per lo meno di un generale consenso sulla teoria più valida: invece fornire più informazioni alle persone sembra incrementare la polarizzazione delle opinioni sul cambiamento climatico. Questo ci conferma quanto sono importanti le emozioni: le persone fanno di tutto pur di trarre conclusioni coerenti con il loro sistema di credenze e valori”.
“Avere una diffusione orizzontale di
competenze legate ai dati aiuta i manager
a prendere decisioni condivise e consapevoli.
In quest'ottica diventa fondamentale la
diffusione della data literacy"
DONATA COLUMBRO
Giornalista e Co-Fondatrice - Dataninja
“Avere una diffusione orizzontale di competenze legate ai dati aiuta i manager a prendere decisioni condivise e consapevoli. In quest'ottica diventa fondamentale la diffusione della data literacy."
DONATA COLUMBRO
Giornalista e Co-Fondatrice - Dataninja
E infine, cosa contiene quel numero?
Sempre prendendo in considerazione i cambiamenti climatici, il dato più rilevante nella lotta al riscaldamento globale è quello che riguarda le emissioni di CO2, e anche su questo ci sono modi diversi di misurarlo da paese a paese. A volte, anche in modo intenzionale: secondo un’inchiesta del Washington Post i paesi sottostimano le loro emissioni di gas serra nei rapporti che poi forniscono alle Nazioni Unite, per evitare di ricorrere a riduzioni drastiche negli accordi.
Ecco perché quando vedo un dato devo chiedermi come è stato calcolato, cosa contiene, cosa esclude, qual è stata la metodologia di quella raccolta e analisi.
Se la domanda vi sembra scontata, prendiamo l’esercizio descritto da Michael Blastland, produttore del programma radiofonico di data literacy della BBC More or Less, per dimostrare che in ogni misurazione c’è una dose di incertezza: visualizziamo un prato su cui si trovano due pecore. Quante pecore ci sono sul prato? Due, ci viene da dire. Immaginiamo però che una delle pecore sia in realtà un agnello, e che l’altra sia incinta, vicina al parto: anzi, il travaglio è già iniziato, potrebbe partorire da un momento all’altro. Quante pecore contiamo ora?
Se quello delle pecore vi sembra un esercizio facile, pensate che a oggi anche la stima della popolazione che resta da vaccinare rimane piena di “buchi” nei dati perché tutto si basa sull’idea che ci sia un certo numero di persone over 60,70, 80 nei diversi paesi, ma non abbiamo la certezza che sia davvero così, come riporta anche il Financial Times in questo bel pezzo sull’incertezza.
Per diffondere la cultura dei dati in azienda i manager non dovrebbero cedere all’idea che fermarsi a riflettere su questi punti chiave sia una perdita di tempo: il dato non esiste in natura, qualcuno deve decidere di misurare un fenomeno, inserirlo all’interno di alcune categorie, escludendone altre, in un determinato periodo di tempo. Senza una consapevolezza del fatto che questa è la base su cui ci muoviamo non possiamo coinvolgere tutti i team dell’azienda in riunioni in cui si osservano dashboard di dati e si prendono decisioni data driven.
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19 gennaio 2022
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